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sabato 8 settembre 2012

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Il viaggio di Justine, Elise e me medesima è stato molto divertente, ecco a voi la storia tutta di fila. E grazie ai colori di Elise Wilk!
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Barattoli, cappelli ed errori 
(sette giorni sulla strada)




Era tornato per la settima volta il primo giorno di settembre e Justine la notte avanti aveva sognato che qualcuno la chiamava, era un suono come di rapace dolce, che diceva: "juuuu juuuu...." faceva una lunga pausa, come un abbraccio buono, e poi di nuovo: "juuuu juuuu".
Fu così che quella mattina, dopo essersi svegliata, aver fatto colazione con i suoi broccoletti al cacao e aver guardato la giornata dal suo ramo preferito dell'albicocco, ecco, Justine decise di abbandonare baracca e barattoli e partire per chissà dove.

Più che una baracca, la sua era un vera e propria fabbrica: una fabbrica di barattoli, ma mica barattoli qualsiasi. Ne prese soltanto uno con sé e lasciò mamma e papà ad occuparsi di tutto il resto.

"Io parto con la strada. Addio, arrivederci, ciao!" Salutò così, Justine, ed ecco che il suo viaggio incominciò.  

La bambina stava già zompettando per la via quando udì una voce al suo fianco: "Dove pensi di andartene, sola soletta?" – muggì la mamma - "Non vorrai lasciarmi qui a lavorare mentre tu te ne vai per il mondo? Vengo anch'io e alla fabbrica ci penserà tuo padre".
Chinando dolcemente il capo, la mamma colse sulla sua schiena la piccola e insieme diedero il vero inizio a questo viaggio.

La strada proseguiva dritta per chilometri e chilometri, a perdita d'occhio si vedevano soltanto alberi. A Justine piaceva il dondolio dolce di quella camminata e siccome in quel momento indossava il suo cappello celeste, quello dei sognatori, chiuse gli occhi e si lasciò cullare.
Anche la mamma chiuse gli occhi, lei ci vedeva con le orecchie, con il naso, con la coda e anche con l'aria che incontrava la sua pelle. Era il primo viaggio che facevano insieme, anzi, per Justine era il primo viaggio di tutta la vita.
Stringeva ben bene il suo barattolo e ascoltava la strada.

All'improvviso una voce rauca e forte le interruppe: "Ma che bella mucca grassa e pettinata... a quanto la vendi? Ho da offrirti un affare."
Entrambe sbarrarono gli occhi e si trovarono difronte un ometto vestito di tutto punto e con un sorriso che sembrava arrivare fin dietro le orecchie. "Non sarà mica finto?" - pensò subito Justine – e poi si rivolse a lui: "Questa mucca è la mia mamma, non è in vendita, Signore, dunque ciao, arrivederci, addio!"
"Come come? Mi vuoi prendere in giro? Questa mucca sarebbe la tua mammina?"
E così mentre l'ometto che aveva il sorriso anche senza allegria insisteva nel chiedere prezzi e nel proporre affari, Justine dovette spiegare di come mamma e papà erano stati trasformati in bestie da una strega: si trattava della ex migliore amica di mamma. Justine stava per spiegare perché ex, quando l'ometto la incalzò proponendole un intruglio che avrebbe certamente fatto tornare i suoi genitori allo stato umano. Il venditore credeva ormai di averla in pugno, ma la bambina ripose con una gran risata: "I miei genitori stanno bene così! Perciò, Signor Sorriso, goodbye, lebewohl, adieu!"

La mamma non aveva dovuto pronunciare una sola parola, sorrise affettuosamente e tornò a camminare ad occhi chiusi e sogni aperti. 


"Facciamo un gioco?" - domandò Justine allegra – "Facciamo il gioco del vorrei essere. Va bene? Tu? Tu chi vorresti essere?"
"Io vorrei essere una mucca." - rispose cantilenante la mamma, un po' stanca di fare sempre lo stesso gioco.
"Eh, ma così non vale! Sei già una mucca."
"Beh, non sei contenta per me?"
"Sì, ma adesso stiamo giocando! Per esempio io vorrei essere una civetta! Anzi, no, aspetta: un pinguino! Se fossi una civetta potrei cantare tutta la notte con la luna, potrei cantare: Juuuu Juuuu..... Però se fossi un pinguino potrei vedere l'aurora polare ogni volta che mi pare... è un'ardua scelta, non credi? E tu, mamma, allora?"
"Io vorrei essere una montagna, con la mia cima innevata potrei ascoltare tutte le altezze e non sarei mai sola."
"Sì, e poi saresti tutta vestita di alberi e anche loro potrebbero giocare al gioco del vorrei essere, lo sai?"

Una betulla che passava di lì, lenta lenta, le seguì con lo sguardo: se le avessero chiesto di giocare, lei avrebbe risposto che le sarebbe piaciuto essere un giaguaro, magari giusto una volta ogni tanto.
Sulla strada, che nel frattempo s'era fatta tortuosa e su e giù e lì e là, c'era anche qualcun altro e non sembrava per niente aver voglia di giocare. 

La bambina indossò il cappello degli avventurieri. 


Era un lupaccio, un lupo d'impaccio sulla loro via e se c'era qualcosa di cui Justine aveva paura erano proprio i lupi! Non si può certo dire che fosse una bambina fifona, soprattutto poi quando indossava il suo cappello da avventuriero, ma i lupi la terrorizzavano. E fu per questo che appena lo intravide laggiù, quando ancora non aveva udito le sue minacce di denti affilati e bava affamata, aprì tremante il suo prezioso barattolo e disse: portami a casa portami a casa.

Era a questo che servivano i barattoli di famiglia, i barattoli torna-a-casa: dovunque tu fossi, che tempestasse o tirasse la Bora, che fossi lontanissimo o dietro l'angolo, il barattolo ti catapultava subito a casa. Bastava aprirlo e la strada di casa ti avrebbe avvolto fra le sue spire e riportato là, dove desideravi essere. O almeno questa era la teoria.

Aperto il barattolo, la strada di Justine fece le bizze, rubò in un battibaleno il cappello della bambina e se ne scappò via. Fu così che di fretta e furia Justine e la mamma dovettero rincorrere la strada di casa che se ne stava andando da tutt'altra parte e dietro di loro si accodò il lupo.
"Ha fame! Ha fame!" - Urlava Justine voltandosi spaventata, ma alla mamma, anche lei in gran corsa, qualcosa non tornava: ora che era più vicino, le sembrava proprio che quel lupo avesse qualcosa di familiare.
"Il mio cappello! Il mio cappello!" - Urlava ancora la bambina, preoccupata per la sua collezione. Come avrebbe fatto senza quel cappello a vivere le sue future avventure? Sempre se il lupo non la avesse mangiata prima! E così ricominciava: "Ha fame! Ha fame!"
"Macché fame, piccola mia..." – annaspava la mucca – "quello non è un vero lupo, parola di mamma!"
E poi, voltandosi indietro: "Che cosa vuoi, Bertilla?! Da quanto tempo non ci si trova! Vedo che sei in forma, sì, bene, allora ciao, ciaociao, ciao!"

Ma Bertilla, la ex migliore amica della mamma, continuava a seguirle.   


Ululò, ululò e poi urlò affannata.
Ora che l'avevano riconosciuta, stava riprendendo almeno in parte le sue sembianze naturali. Urlò ancora ma Justine e la mamma proprio non comprendevano cosa stesse dicendo, non sembrava neppure la loro stessa lingua!
Allora Bertilla corse più di corsa, le raggiunse e le superò fino ad acchiappare la strada di casa.
Si mise in testa una combinazione invincibile di cappelli (avventurieri+prestigiatori=avrò la meglio in tutti i giochi del pianeta) e fissò ben bene Justine, impressionata dalla strega di cui aveva sempre sentito la storia.
La storia raccontava che Bertilla, ai tempi della giovinezza, trascorreva notte e giorno a sperimentare incantesimi, a fare prove su prove, a tormentare amici, nemici, cavie con formule magiche che, però, davano sempre esiti infelici. Anzi, non sempre: piuttosto, cento volte su centouna. Alla centounesima volta, l'incantesimo di turno funzionava ed era stato questo ad accendere in lei la follia di perseverare. Eppure, lei che voleva essere a tutti i costi una strega, una strega non era, affatto affatto, e dalla centoduesima volta ricominciava a fallire. Dopo aver tramutato per sbaglio i genitori di Justine in mucca e pappagallo, Bertilla si era sentita così male da perdere del tutto la testa e da allora aveva continuato a fare stragi magiche in giro per il mondo. Lei certo non sapeva che i genitori di Justine si erano trovati tanto bene nei panni animali da  accogliere l'ennesimo errore dell'amica con una gran risata, seppur con il proposito di tenersene alla larga per il resto della loro vita, perché non si poteva mai sapere cosa avrebbe combinato ancora.

E invece adesso eccola lì! E cosa voleva? Justine non lo capiva, era intimorita, ma la mucca, invece, lo intuì osservando la sua ex amica come fosse una amica: voleva solo chiedere scusa, voleva solo essere perdonata.
Bertilla però era ammattita e non sapeva chiedere dolcezza, perché lei terrorizzava e graffiava senza neppure accorgersene.

La bambina aveva altri due cappelli nella sua collezione e, nonostante la paura, un'idea le cavalcò la testa.


Prese a due mani il cappello degli impavidi e vi sistemò ben bene dentro il cappello, anzi, cappellino, dei chiacchieroni. Quest'ultimo era minuto perché sulla testa si doveva lasciare spazio alle parole, fiumi e trecce e tornanti di parole pronte a lanciarsi nel vento e nelle orecchie. Infilò la combinazione fatale sulla sua testa ed era pronta! Pronta ad affrontare Bertilla, che già non le pareva più così spaventosa. Dapprima le rivolse qualche saluto nelle lingue che conosceva e poi, non ricevendo ringhi o pernacchie in risposta, diede il via libera alla sua parlantina. La mamma si tappò le orecchie, perché sapeva, ma la strega non strega - poverina - no. E così fu travolta da un uragano di sillabe e intonazioni, una montagna russa di verbi e aggettivi.
Dopo un trattamento del genere, solitamente chiunque sapeva soltanto accondiscendere. Dire sì a qualunque richiesta, e faceva così la bambina: ad un certo punto smetteva, ritraeva il suo vento vocale e dopo una pausa perfetta, senza sbavature, diceva qualcosa del tipo: "Ti piacciono i broccoletti al cacao?" oppure "Quanto dista il tuo cuore?" oppure "Come ti chiami?". Sì, rispose Bertilla, senza nemmeno capire bene la domanda. E fu così che si ritrovò a seguire Justine dovunque lei volesse e senza graffiare.

Con la strada di casa Justine non ebbe neppure bisogno di parlare, anche lei aveva ascoltato suo malgrado ed era già stordita. Le sue bizze erano messe in riga e ora tutte e quattro insieme stavano volando verso casa, perché qualcosa andava aggiustato.


A furia di parlare, però, a Justine era venuto un gran sonno. Aveva tutto quel viaggio sulla testa e in fondo era pur sempre una bambina. Appena a casa, senza arrivare al letto, la piccola fece un grande sbadiglio e si addormentò in salotto. Attorno a lei, papà, mamma e Bertilla si guardavano e la guardavano. Due occhi su, due giù, di qui, di là, finché il pappagallo sbottò: "Ma insomma, mi volete spiegare?!"
"Shhh.... sveglierai la bambina!" riposero in coro le due, nuovamente complici.

L'indomani Justine si alzò per prima e preparò la colazione per tutti, Bertilla compresa. A fare da centrotavola il barattolo del suo viaggio, aperto e con un gambo di broccoletto al posto della strada. La strada se n'era ormai andata e, anche se non sapeva perché, Justine non aveva più voglia di spiegare a papà che dalla fabbrica era uscito un barattolo difettoso e che forse ce n'erano altri e che avrebbe dovuto ripararli.

Era stato bello così, con un po' di pepe in più.
Arrivederci al prossimo errore!



Illustrazioni di Elise Wilk

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